lunedì 16 agosto 2010

Il grande Moloch


A volte, per capire in che direzione va la globalizzazione, è necessario restringere il campo di ricerca.
Per questo motivo oggi limiterò l'osservazione all'ambito italiano con uno scopo ben delimitato: dimostrare perché la parola "futuro" può essere tranquillamente cancellata dal nostro vocabolario e sostituita con "presente", ovvero perché posso affermare di vivere in un Paese in declino e prossimo al fallimento dove è possibile vivere giorno per giorno e non altrimenti.

Sia ben chiaro, la globalizzazione potrebbe così sembrare una perturbazione esterna al "sistema-Italia", ma il punto è che la globalizzazione è un fenomeno che trascende il locale, lo infiltra con le sue dinamiche, lo pone in una dimensione storicamente inedita e e irreversibile, oltre che ineluttabile.

Senza stare a perdere tempo spiegandovi cos'è la globalizzazione, quali le sue manifestazioni in ambito politico, economico e culturale, intendo tracciare chiaramente un ritratto dell'attualità, sicuro di lasciare qualcosa per strada.
(sarò grato di ricevere integrazioni alle mie mancanze).

Scegliamo un punto di partenza arbitrario: il primo articolo della nostra Costituzione, esso recita:

"L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione"
 Ad esso si affianca l'Articolo 4:
"La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società"

 Il punto di partenza è dunque il lavoro.
Come sappiamo, il lavoro è un'attività produttiva (materiale o intellettuale) avente scopo di "concorrere al progresso materiale o spirituale della società" e, per il singolo, di rendere possibile la soddisfazione dei suoi bisogni primari(Maslow docet).
Sorvolando a piedi pari la storia del lavoro in Italia, giungiamo ai tempi odierni: all'introduzione della flessibilità (o, mettendo da parte i graziosi eufemismi, precariato) grazie alla Legge Biagi del 2003.


In breve tempo l'esercito dei call-center, o di qualsiasi altro lavoro sottopagato, è cresciuto a dismisura, permettendo ai privati di raggranellare immensi introiti diminuendo salari e diritti: se il tasso di disoccupazione in Italia non è alto quanto quello di altri Paesi europei è tutto dovuto al fatto che le figure professionali nate dalla Legge Biagi sono una realtà rilevante del nostro tessuto produttivo.
Nel frattempo la globalizzazione ha determinato la delocalizzazione delle industrie (leggi FIAT) e dunque la chiusura degli impianti italiani, tirando così acqua al mulino leghista che tutto può e vuole tranne che fermare queste dinamiche.


Ma questa è realtà tangibile, credo che la maggior parte di voi abbia un'ottima cognizione di ciò che sto dicendo e dunque vado avanti.
Il drastico calo dell'intervento dello Stato in economia ed il blocco delle assunzioni statali ha determinato una netta frattura nella realtà sociale, soprattutto nel Mezzogiorno, che per decenni ha sognato "il posto pubblico".
Contestualmente manca un legame solido tra il mondo della formazione e quello del lavoro: di fatto l'Università italiana è una sorta di parco giochi dove far perdere tempo ai giovani permettendo ad alcune cariatidi di portare a casa la pagnotta con cattedre-burletta e dottorati di ricerca di dubbia utilità.


La vera ricerca scientifica, generosamente supportata dagli altri Paesi occidentali, in Italia è ferma all'anno zero: il termine "fuga dei cervelli" riassume concretamente la situazione.
Le materie umanistiche, ritenute assolutamente inutili in un Paese che detiene un patrimonio artistico di primo livello, sono condannate a morte certa, così come chi intende dedicare la propria vita a cose "improduttive" come la linguistica.
Un Paese senza ricerca è un Paese geologicamente morto.


Altro dramma riguarda l'accesso alle professioni: è giusto selezionare le abilità e introdurre "la meritocrazia", ma ciò è perfettamente inutile se poi la burocrazia accademica impedisce la creazione della professionalità costruendo continue barriere (provate a chiedere a coloro che vogliono diventare insegnanti).


Dunque il lavoro (quello vero, non la schiavitù sottopagata interinale) diventa un privilegio per pochi, un'arma di ricatto, una merce di scambio: è il sintomo di un Paese governato da oligarchi e baroni che hanno paura di un confronto con le nuove generazioni.


Ultimo appunto sul lavoro: con gli stipendi da schifo e con la precarietà, quanto possiamo contribuire in termini previdenziali e fiscali?
Come pagheremo le pensioni già solo tra dieci anni?
Come farà lo Stato, ed ancor più gli Enti Locali, ad erogare i servizi?
Beh, l'ultima domanda ha per alcuni una risposta: privatizzazione.
Senza tener conto che i privati hanno il vizio di far crescere a dismisura il costo di questi servizi (con bollette più care da pagare per le famiglie che già incamerano ben poco).


Bene, la carne al fuoco è tanta ed è tempo di tirare le somme.
Come anche i bambini delle elementari sanno, l'economia di una nazione si basa su tre settori.
Il primario, agricoltura e allevamento, vive da anni in uno stato d'agonia: importiamo prodotti che potremmo coltivare noi stessi.
A nessuno verrebbe in mente di indagare sulle dinamiche che fanno aumentare i prezzi dei prodotto nostrani: i diretti coltivatori hanno già difficoltà a competere con i prezzi stracciati delle merci estere, ma il vero problema nasce nella distribuzione, con i grossisti che moltiplicano il prezzo della frutta.


Stendiamo un velo pietoso anche sull'industria: gli eventi di Pomigliano e il diktat della FIAT hanno creato una frattura di proporzioni storiche.
D'ora in avanti i padroni ricatteranno e l'avranno vinta senza neanche dover lottare veramente.
La logica del "chiagne e fotte" di Marchionne (che non aveva fatto una parola sulla Serbia fino a dopo il referendum di Pomigliano) sarà la logica di tutti gli industriali italiani.


Il terziario, i settori ai servizi, sembravano fino a qualche anno fa l'ancora di salvezza.
Adesso ci accorgiamo che anche lì (e forse soprattutto lì) dilaga la peste: di questi giorni la purga staliniana di Unicredit (4700 esuberi mentre, secondo un articolo del Sole 24 Ore, nel 2007 il suo Top Manager, Alessandro Profumo, guadagnava così: "un aumento del 39,7% a 9,427 milioni... Ha inoltre ricevuto 575mila azioni gratuite della banca, che all'epoca quotavano 6,812 euro: il pacchetto, che Profumo non ha però venduto, valeva 3,92 milioni. Comprendendo le azioni gratuite, i compensi di Profumo salirebbero a 13,35 milioni".


Ho voluto correre un po' nel finale, ma credo che il filo dei pensieri, per quanto contorto, sia stato abbastanza facile da seguire.
Chiudo con due annotazioni:


1)Alla luce di tutto ciò appare chiaro che non può esistere un quarto settore dell'economia: tutto ricade nelle tre categorie.
L'estrema finanziarizzazione dell'economia ha comportato negli ultimi anni l'ipertrofia del terziario,ma adesso ci rendiamo conto che si vive anche di pane e di martello.
NON ESISTE UN QUARTO SETTORE DOVE RIPARARE 


2)Rido a crepapelle sentendo pure idiozie come "La crescita sta rallentando" (frase cifrata che indica IL PROLUNGARSI DELLA RECESSIONE).
Finché metà dei giovani non trova lavoro, e l'altra metà ha un impiego che non merita di essere nemmeno qualificato come professione, finché i cinquantenni continueranno ad essere licenziati (mo' vatti a cercare un lavoro), finché continueremo a sperperare denaro pubblico e tollereremo l'evasione fiscale (soprattutto da parte delle multinazionali), finché soprattutto non metteremo freni e regole al mercato globale, SCORDIAMOCI DI USCIRE DALLA CRISI.


Dunque, cos'è la globalizzazione in Italia?
Un moloch invisibile, una sorta di avversa divinità da chiamare in causa per nascondere la verità dei fatti: i meccanismi del lavoro,quelli della formazione, l'assenza di ricerca ed il fatto di essere governati da inetti burini ci stanno condannando ad un domani senza futuro.

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